“Picciola terra” chiamava Giacomo Leopardi quella di Annibal Caro, il famoso traduttore dell’”Eneide”, nativo di Civitanova Marche, vicinissima alla sua Recanati: “picciola terra” per indicare un territorio compreso dentro un solo giro d’orizzonte, investito dalle stesse correnti astrali come dal medesimo temporale. Luogo fisico e umano dalle conformazioni ed abitudini simili, pervaso dagli stessi pensieri, accenti, fobie, da tutti i legami che ciascuno via via vi intreccia, che tutti insieme diventano le strutture e le funzioni di un corpo e di una mente.
Proprio un cerchio di terra marchigiana, uno dei tanti fra gli Appennini e l’Adriatico, che costituiscono la regione chiamata appunto Marche, come ogni buona guida spiega, per l’applicazione a tale sua fisionomia del sostantivo Mark che in tedesco significa confine. Confini tanti e ripetuti che vi trovavano messi e vassalli imperiali, truppe, vescovi-conti, predicatori, mercanti e artisti alla ricerca di un signore in vena di progetti. E Marche va bene al plurale ancora oggi che pur riunite in un’unica regione sul polpaccio dello stivale, fra nord e sud, nella forma compatta di un rettangolo, restano tante e diverse, numerose “picciole terre”. Tutte molto belle ed equilibrate, tra le valli e i campi, intorno a una piazza o a una facciata sempre da libro aperto, sempre da leggere, segnate ai margini da siepi e da fontane, come nelle acqueforti di Luigi Bartolini, di Cupramontana; oppure sospese e volanti in cima a sbalzi d’arenaria, affidate al turchino del cielo con gli occhi a mandorla delle Amalasunte lunari di Osvaldo Licini, di Monte Vidon Corrado.
La mia è quella di Urbino, dove sono nato dentro le mura della città e dove sono cresciuto fino alla gioventù prima che il mondo cambiasse del tutto, si rivoltasse con la guerra e con le infinite trasformazioni da essa portate e indotte. È una terra collinare e piuttosto franta, tra i fiumi Foglia e Metauro, voltata verso la marina da una timida vallata che si apre solo in basso, già tra le ondulazioni della costa; con determinazione rivolta verso l’Appennino da infinite rincorse di poggi e slarghi di cielo, sull’arco che va dai Sassi di S. Simone al monte della Strega. I torricini del palazzo della corte ducale urbinate (il primo palazzo al mondo: non più un castello, ma una dimora civile con settori apprestati per la cultura, anche del governo), alti sopra le mura della campagna, con le punte tra i cariaggi stellari, segnano il territorio soggetto alla città e insieme la misura di un pensiero dominante e di una civiltà. Le terre e i paesi davanti sono tutti intessuti dai piani di una gestione unitaria, razionale, con rocche di difesa che ancora resistono (quelle di Francesco di Giorgio Martini, le più belle dell’architettura militare del ‘400), ma anche con corti ducali, strade, ospizi, biblioteche, chiese, mercati, fornaci di maioliche.
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Paolo Volponi
(dal Corriere della sera del 21 febbraio 1982)